lunedì 19 dicembre 2011

LA NUOVA GENERAZIONE & " MAFIOSITA' "


Vivo nella ferma convinzione che la mia sia una generazione “dannata”, non tanto per le insistenti crisi economiche e la mancanza di prospettive lavorative, dovuta a un mercato sempre più ridotto e spietato, ma in quanto si è persa la consapevolezza civile del ruolo dei giovani all’interno della società. Essi dovrebbero rappresentare la base sulla quale lo Stato può svilupparsi in altezza e tendere ad un continuo miglioramento qualitativo attraverso nuove idee ed entusiasmi. E’ frustrante accorgersi di come le potenzialità dell’ultima generazione vengano soffocate, deviate da un sistema omologato e massificatore, per certi versi voluto. La mancanza di spessore culturale ed ideologico dell’attuale classe dirigente, l’uso strumentale e stereotipato dei mass media tendente alla spettacolarizzazione delle problematiche del paese,  concorrono a desensibilizzare i nuovi cittadini portandoli o ad un approccio superficiale e improduttivo che non porta ad analizzare l’origine di un problema ma solo a lamentarne gli effetti o peggio ancora, all’indifferenza e alla passività. Ritengo che sia compito del cittadino responsabile spingersi oltre le apparenze, oltre la “verità” che un sistema politico, percepito affarista e convenzionato, cerca di imporgli per mezzo del monopolio dei mezzi di comunicazione. Si deve cercare l’informazione e non subirla, per far si che la  democrazia non arrivi trasformarsi in un “trionfo della mediocrità”.
E’ necessario recuperare (promuovendo la cultura, l’educazione civica e la presenza costante delle istituzioni) una sensibilità che sembra persa, risvegliare una coscienza civile dal torpore del qualunquismo, provare indignazione e vergogna contro tutto ciò che è sbagliato e che inquina il contesto in cui il cittadino si forma.
Lo stato italiano da sempre convive con una patologia che sembra inestirpabile: il fenomeno mafioso. Una presenza così capillare sul territorio da contaminarne le istituzioni, fino a indurre esponenti politici di primo piano ad affermarne la non esistenza. Solo attraverso un’estenuante battaglia decennale si è giunti a comprenderne le radici, i meccanismi, le basi economiche, i retroscena politici. Nonostante tutto, troppi dei delitti compiuti per mano mafiosa non hanno mai trovato chiarezza, abbandonati a un graduale insabbiamento da parte dell’opinione pubblica “controllata”, di fronte all’impotenza della magistratura e ai drammatici sospetti sulla complicità delle istituzioni. Così quel cittadino che non vive sulla propria pelle il problema, istintivamente sarà portato a ignorarlo, a considerarlo un “fatto di televisione”, mentre il cittadino che subisce la mafia in via diretta viene lasciato solo, nell’indifferenza generale. E chi la combatte spesso è lasciato solo. L’indifferenza è forse l’arma più potente della mafia.
L’eccidio di Portella delle ginestre  è sicuramente uno degli esempi più eclatanti di come fin dal primissimo dopoguerra l’italia, come società civile, abbia dovuto far fronte a gravissimi atti criminali a fini sovversivi e intimidatori nei confronti di un sistema neonato e fragile nelle fondamenta. Un sistema debole che ha ceduto troppo facilmente all’infiltrazione mafiosa in tutti i livelli amministrativi, nonostante i clamorosi arresti e gli improvvisi scandali che in più occasioni hanno colpito al cuore della politica italiana. E’ solo la scalfittura della punta di un iceberg.
La strage di Portella delle ginestre, avvenuta simbolicamente il 1 maggio,  assunse nel corso degli anni una gravità sempre maggiore in quanto, man mano che proseguivano le indagini (anche dopo il processo di Viterbo), ci si rese conto della parte attiva svolta dallo Stato, forse addirittura il mandante che aveva armato gli uomini di Giuliano, esecutori della strage. Ipotesi altrettanto agghiaccianti vorrebbero la partecipazione dei servizi segreti americani, dei MAS, degli agrari siciliani e dei mafiosi sotto il tacito consenso dello Stato. Le morti misteriose e irrisolte di Giuliano e del suo luogotenente Pisciotta, le innumerevoli accuse e smentite, la poca linearità con cui fu condotto il processo, contribuirono a creare ulteriori ombre sul ruolo che le istituzioni ricoprirono in tale vicenda. E’ indubbio che Portella delle ginestre non sia stato nè il primo né l’ultimo attentato alla società civile: molti altri ne sono seguiti di stampo terroristico, mafioso e ideologico. Ma per quanto possa essere diversa la matrice e il “movente” di tali atti criminali, resta, senza soluzione, la stessa e pungente domanda: lo Stato dov’era?
Personalmente ritengo che non sia in questi termini la questione da porsi. Non si tratta di capire quale sia la reale entità dello Stato sul territorio ma quale sia l’identità con la quale si manifesta al cittadino. Lo Stato presenta due anime antagoniste: da un lato lo “Stato delle Poltrone” affarista e corrotto dai compromessi e dalle convenienze, soggiogato al conflitto d’interesse e alle lobbies, dall’altro lo “Stato d’Azione” dedito all’impegno civile e dei valori etici, del lavoro e della lotta alla criminalità, che si erge difesa dei diritti e delle libertà costituzionali. Per far sì che l’anima “buona”  prevarichi sull’altra è indispensabile l’inizio di una nuova cultura politica che miri alla responsabilizzazione del cittadino, una pratica di governo che si fondi su virtù pubbliche e non su vizi privati, che sia al servizio del cittadino e non mercenaria. La nuova generazione, di cui mi sento parte, ha bisogno di modelli comportamentali ai quali ispirarsi, personalità e non personaggi che diano il classico “buon esempio” e che permettano di far recuperare una credibilità e sicurezza della classe dirigente che sembrano da troppo tempo smarrite. La storia drammatica della nostra Repubblica non deve essere lasciata sui libri riducendosi ad un arricchimento fine a se stesso, ma deve costituire le fondamenta sulle quali si può e  si deve costruire un’identità, una cultura personale dal forte spirito critico che abbia un uso strumentale ma nobile, affinché possa essere utilizzata come cura contro l’ignoranza e l’apatia, i primi sintomi di un modo di fare “mafioso” che, visti i tempi che corrono, è considerato una comodità e non condannato.

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